Se è vero che, secondo la tradizione occidentale, l’artista è il vate, colui che vede prima e con maggior chiarezza rispetto agli altri uomini, colui che agli altri uomini può aprire una porta e indicare la via, è anche vero che questa via non è mai un ritorno verso il punto di partenza iniziale: è sempre un percorso in avanti, durante il quale l’artista spoglia se stesso e la propria arte per raggiungere infine il proprio centro.

 

E il centro è fatto di vuoto, un vuoto circondato e custodito dalla materia (i raggi e l’argilla). Osservando le opere che Gianfranco Zappettini realizzò negli anni Settanta del secolo scorso, siano esse i quadri “bianchi” o le “tele sovrapposte”, quello che non vediamo è importante quanto ciò che vediamo. Nei “bianchi” vediamo una tela ricoperta di acrilico bianco, ma non vediamo la superficie nera dalla quale l’artista ha iniziato; nelle “tele sovrapposte” vediamo uno spazio vuoto sulla tela più esterna delimitato da un quadrato tracciato a matita, ma non vediamo gli spazi pieni o semipieni delle tele sottostanti.

 

Questo vale anche per le opere più recenti, quelle che appartengono alla serie La trama e l’ordito, per cui il risultato è una superficie pittorica nella quale i materiali industriali, prodotti di questi tempi, vengono tessuti in un insieme che questi tempi trascende: il Fine che traspare (per citare un’altra serie di Zappettini degli anni Novanta) è anche in questo caso un vuoto (l’aspetto esteriore dell’opera) che nasconde la ricchezza e la metodicità di una prassi tradizionale (in questo caso quella della tessitura).