Per Zappettini la pittura è un’estensione del pensiero che ha la necessità di trovare, ogni volta, una nuova verifica nel compimento di un’azione materiale: è la coscienza d’intervenire in uno spazio fisico delimitato dove il confronto avviene, secondo le parole di Roland Barthes, “con il limite iniziale del possibile”.
L’opera d’arte, dunque, si autodetermina in un contesto preordinato all’interno del quale il punto di rottura con le convenzioni avviene secondo un rinnovamento della logica semantica. Sin dalla fine degli anni Sessanta Zappettini imposta un metodo a cui rimane fedele ancora oggi, dove le varianti avvengono a livello di processo operativo. Ciascuna azione produce opere autonome, tra loro correlate, che fanno parte di una medesima serie, come fossero le pagine di un romanzo che si può leggere indifferentemente dall’inizio o dalla fine, in un rapporto ciclico.
Zappettini rompe i legami con la tradizione affidandosi a mezzi extra artistici (dalla polvere di quarzo ai colori industriali, sino al rullo da imbianchino) in modo da evitare che i materiali si carichino di senso o possano essere interpretati in chiave autobiografica. Anche la gestualità espressiva va eliminata, così come la pennellata che risente degli umori del suo autore, in una progressiva liberazione da tutto ciò che possa far supporre un’interpretazione differente da quello che è l’unico scopo della ricerca: l’opera d’arte in quanto tale.