Si definisce un astrattista alle prese con la realtà, un metafisico costretto a misurarsi con la caducità della natura. Luciano Ventrone aborre il termine iperrealista che, negli ultimi trent’anni, la critica ha riservato alle sue nature morte, così impressionantemente vere da essere inverosimili, di un realismo così eccessivo da non potersi dare paragone nella realtà.
In questo senso si potrebbe usare il prefisso iper- intendendo il desiderio di andare “oltre” quel visibile che ci consentono gli occhi, per addentrarsi nei territori della pura speculazione, come sembra voler fare Ventrone, nelle cui opere c’è poco del genere pittorico cosiddetto iperrealista, tipico degli anni Sessanta e Settanta in America, in forte competizione con la fotografia e ad essa succube, mentre c’è molto della tensione metafisica che è alle radici della pittura novecentesca ai suoi albori.
E, se non bastasse, ciò che lo contraddistingue dagli “iper” è il modo raffinato con cui sceglie gli oggetti da rappresentare e come li mette in scena, perché la tecnica – scriveva Gillo Dorfles – può essere addirittura un impedimento, se non è accompagnata dal gusto, un gusto che, invece, nel caso di Ventrone, è stato educato alla scuola dell’antico e di Caravaggio consentendogli esiti straordinari, di sublime raffinatezza.