Nel pensare al lavoro di Antonella Zazzera nasce lo stupore per qualcosa che ha l’apparenza del fluido, e che invece è solido: le sue sculture, gli altorilievi in filo di rame o in altri materiali sono intrecciati, sono “tessuti” in modo da suggerire una piega momentanea, lo scorrere di un’onda, un soffio di vento, mentre sono lì, solidi e immoti per una quantità di tempo che sembra eterna, se pensiamo alla robustezza e alla durata della materia di cui son fatti.

Ma l’opera di Zazzera non si esaurisce nell’artificio percettivo, per quanto sapiente. Passato quel momento ineludibile di stupore, comincia il cammino della cultura, di ciò che sappiamo e di ciò che si aggiunge grazie a quell’opera, e subito ci si trova di fronte a un secondo cortocircuito ideale, che è quello di una “scultura tessuta”.

I suoi lavori suggeriscono la possibilità di un mutamento di forma, che quello che era chiuso venga “srotolato”, cioè diventi “aperto”, e la forma muti con una mobilità impensabile per la scultura. Resta la possibilità che questo avvenga, e tanto basta all’arte e allo svelamento del processo mentale, o dell’intuizione, o della pulsione che vi sta dietro e che ora, grazie a quella forma combinata con quella materia ci viene posto davanti.