Ecco come si descrive lo stesso artista: “All’anagrafe sono registrato come Francesco De Molfetta. Ma nessuno mi chiama così. Sono da sempre per tutti il ‘Demo’. So per certo che il mio lavoro riguarda l’infanzia. La mia soprattutto. Credo che tutto abbia origine da lì. Quando da piccolo mi facevano la fatidica domanda ‘che cosa vuoi fare da grande?’, io non avevo dubbi, rispondevo: ‘il giocattolaio: voglio vendere i miei giocattoli’. In un certo senso è quello che faccio. Vendo giocattoli che parlano di me, della mia poetica e dei miei drammi. Resine, colori e plastiche prendono forma per trasmettere contenuto”. La generazione dei trenta/quarantenni è oggi intrisa di cultura anni Ottanta, dei suoi idoli, delle sue icone, ed è inevitabile che prima o poi si senta la necessità di rendere omaggio a questo decennio, con i suoi splendori e le sue miserie. DEMOcracy è, in parte, il personalissimo omaggio di Francesco De Molfetta al periodo storico che l’ha visto bambino, ai suoi vitelli d’oro, ai suoi miti di cartapesta. Come sempre, quando ci troviamo di fronte ai lavori di questo artista, che è giovane solo da un punto di vista biografico – vanta, infatti, un curriculum di tutto rispetto che l’ha visto più volte protagonista di esposizioni di alto livello e oggetto di un ricercato e affezionato collezionismo – si rimane piacevolmente spiazzati dalla forza dissacrante delle sue opere, dalla dose di ironia, dal recupero di quel gusto duchampiano e, molto italianamente, dedominicisiano, per il gioco di parole, per il sovvertire le certezze, per trovare nuove chiavi di lettura della realtà.