Volume e mostra ripercorrono gli anni che hanno seguito l’ormai mitica stagione della “scuola di piazza del Popolo”, alla quale Giosetta Fioroni, artista giovanissima, dà un contributo decisivo. Quel tempo è stato, com’è ben noto, quello che le donò la maturità, con l’abbandono del colore imprudente e ingovernato, che ancora la seduceva.

Un colore in rivolta, accompagnato da una materia gremita. L’uno e l’altra, al loro apparire, associavano ancora il percorso della Fioroni alla vicenda di un informale ormai saturo; ed erano scambiati adesso con l’adozione di un unico colore (anzi, un “non colore”, come lei stessa disse in seguito), dato dallo smalto alluminio che si depositava rado sulle grandi carte, sulle tele, sulle quali apparivano solitari un volto, una sagoma di donna, uno sguardo, un sorriso… Come in traccia, con il loro racconto slegato, interrotto, asintattico, di una sorta di nuova metafisica.

Immagini, memorie, o relitti di una realtà lontana e imperfetta, quelle che Giosetta Fioroni metteva in figura: una figura discesa da un sentimento di malinconia, di solitudine, quasi d’assenza, che nasce adesso ma che sarà durevolmente la sua. Sono davvero queste sue pitture d’argento, “diapositive di sentimenti”, come le chiamò Goffredo Parise, ricordando il debito verso la fotografia, ma insieme anche la distanza che teneva la Fioroni al riparo da un’immagine troppo immanente.