Dopo oltre millecinquecento anni abbiamo capito che il ritratto non è mai sincero. L’identità di un volto dipinto o fotografato è sempre il risultato di una mistificazione, di un’interpretazione frutto della collisione tra l’emozione del modello e l’interpretazione dell’artista. Meglio allora intervenire in modo radicale ed eliminare la fonte di questa mistificazione.

Stephane Graff lavora per sottrazione, nascondendo occhi, evitando ogni elemento che sottolinei l‘individualità di un volto, obbligando i suoi modelli ad uscire da loro stessi per quella frazione di secondo che dura uno scatto. Egli sfida quindi il ritratto cercando di aggiungere un nuovo tassello alla sua storia millenaria e comprendendo il paradosso di fondere l’iconografia ideale greca con l’individualità romana.

Graff ritrae persone non per descrivere la loro anima, ma – se è concesso dirlo – per rubargliela. L’artista ha compreso che ogni racconto è fallace, ogni immagine episodica, ogni ritratto un concentrato di limiti ed errori.