Raccontare un artista partendo da un colore che definisca superficie e organi interni del suo articolato sistema visivo. Raccontare Maurizio Savini attraverso la geografia plastica del rosa bubble gum, una tinta che è ormai la sua epidermide protettiva e rivelatoria, lo strato che ha identificato, anno dopo anno, un codice linguistico e una personalità iconografica.
Non era facile consolidare un valore maturo con il colore più zuccheroso e fenomenologicamente pop, la più fanciullesca e femminile tra le cromie che animano il mondo flat delle gamme piatte a effetto acrilico.
Ma l’artista agisce da qualche tempo per simbiosi e controlla i fuochi d’ingaggio, padrone della fiamma e possessore simbolico di un ingrediente visivo che lo completa senza limitarlo (se ci pensate bene, quasi tutti i grandi pittori hanno usato lo stesso olio, gli stessi pennelli e le stesse tele per un’intera carriera, motivo per cui non mi stupisco – scrive il curatore Gianluca Marziani – quando un artista scopre un materiale rivelatorio e, anziché abbandonarlo, lo sintonizza alla personale evoluzione).